È il più antico ed illustre personaggio della storia di Isola del Gran Sasso.
Vissuto tra il 1230 e il 1284, assunse in fama per aver guidato il popolo aquilano contro i Feudatari del luogo che contrastavano l’ascesa della città.
Ciò gli provocò l’avversione del re Carlo II, che lo fece avvelenare.
Tratto da “Gente d’Abruzzo, Dizionario Biografico”, a cura di Alessandro Clementi[/box]Uno dei problemi che più pressantemente afflissero la città dell’Aquila nei primi decenni che seguirono la sua fondazione, fu indubbiamente quello di un adeguato popolamento.
L’atto rivoluzionario che l’aveva posta in essere rischiava infatti di svuotarsi lentamente, in quanto non tutti gli abitanti dei castelli che, secondo il patto fondamentale, si sarebbero dovuti trasferire in città, vi erano venuti. Si richiedevano quindi soluzioni rapide, unitarie, definitive, alle quali, tuttavia, si opponevano le ragioni dell’essere l’organismo cittadino ancora giovane e del non essersi completamente rifuse in esso tutte le componenti demiche che l’avevano costituito.
Si sente quindi il bisogno di una leaderschip sicura che sia in grado di prendere decisioni politicomilitari di grosso respiro. Questa leaderschip assume attorno agli anni settanta del secolo tredicesimo – meno di vent’anni dopo la fondazione della città – Niccolò di Isola del Gran Sasso. Vi è chiamato dai cittadini aquilani e Buccio – cronista quasi coevo – ci dice: «Misser Nicola dall’Isola in Aquila fo chiamato». Appena venuto in Aquila, Niccolò crea intorno a sé grande popolarità, tanto da esser definito Cavalier del popolo Era capo del popolo, dice ancora Buccio, e come tale si opponeva ad ogni prepotenza che si intendeva arrecare ai popolares.
Se i capitano volevano imporre ai castelli delle città territorio contribuzioni vessatorie, subito vediamo interporsi Niccolò che impediva che si riscuotesse più del dovuto. Naturalmente con la sempre più crescente popolarità di Niccolò, cresce anche l’invidia e il fastidio di quanti, all’interno della città, rappresentavano i diritti della corona. Niccolò non ne tiene alcun conto, tanto che fa decidere da un’assemblea popolare l’azione in quel momento necessaria sopra ogni altra: la distruzione delle rocche feudali che costituivano, come si diceva, la minaccia per la sopravvivenza della città.
Nell’assemblea Niccolò si leva a parlare dicendo: «Vi prospetto il mio piano. Queste rocche all’intorno sono quelle che impediscono il crescere ed il fiorire della città: facciamoci coraggio ed andiamo a distruggerle. Nessun signore all’intorno ha tanta forza da poter opporre una seria resistenza. Una volta compiuta la distruzione ben potremmo trovare le vie per ottenere l’indulto regio». Dall’Assemblea si leva ad una sola voce la risposta: «Sia immediatamente fatto. Non dovrà rimanere all’intorno una sola rocca. Tu Niccolò guidaci e noi ti seguiremo. Chi si opporrà sarà ucciso». L’oste si avvia quindi verso Ocre che viene distrutta, poi volge a Leporanica che viene devastata, poi si atterra Pizzoli, ed infine Preturo e Barete. Sono le prime, ma ad esse altre ne seguiranno in una specie di reazione a catena che via via riduce a zero le resistenze. Al ritorno fu eretto un palco nella piazza del mercato dove tra gli evviva rivolti sapientemente al re ed a Niccolò si ribadisce per quest’ultimo la carica di Cavaliere del Popolo.
I feudatari allarmati si recarono subito dal re dicendo: “Tu o Carlo non ci tieni cari come invece tieni caro Niccolò dall’Isola unico responsabile della distruzione delle rocche. Carlo II, che non vedeva di buon occhio la crescita della città, invia in Aquila il figlio Carlo Martello, re d’Ungheria e Vicario del re con il preciso incarico di giustiziare Niccolò dall’Isola. Niccolò, invece di fuggire, gli va incontro ad accoglierlo con grandi onori, accompagnato da trecento cavalieri e seimila fanti. Carlo Martello ne resta positivamente impressionato e si convince che l’Isolano è tutt’altro che traditore, bensì un leale servitore della corona. Se ne torna tranquillo a Napoli, ma il padre Carlo II si indigna fortemente accusandolo di non aver adempiuto al compito che gli aveva affidato, cioè di uccidere Niccolò. Affida allora l’incarico a Gentile di Sangro che va all’Aquila per arrestare Niccolò. Compito difficilissimo, perché l’Isolano si era rifugiato nel quartiere della Torre, ben protetto dai Bazzanesi e Paganichesi.
Vista l’impossibilità di assicurarlo alla corona, lo fece avvelenare. Per tre giorni, prima della sepoltura, venne vegliato il corpo di Niccolò dal popolo in lacrime. Mille donne scarmigliate si strapparono i capelli e si raschiarono a sangue le guance. Gli uomini andarono senza cappucci tagliandosi i capelli come se avessero perso il loro padre o un loro figlio.
Questa, in stretta sintesi, è la narrazione di Buccio da Ranallo, che è una delle pochissime fonti di Niccolò dall’Isola, cavaliere del Popolo aquilano.
Sotto la sua effige scrissero gli aquilani: Nicolaus de Insula Pinn. Dioc. a populo Aquilano ab vitae integritatem, iudicii praestantiam Pater Patriae et Aquilanae Civitatis defensor est habitus. An. Doni. MCCLXXXIV.